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13/11/2017

Anja Kunze, 2017 – Recensione di Raffaele Giannantonio

Anja Kunze, 2017

Osservare un’opera di Anja Kunze equivale ad entrare nel giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges (1941). Ogni passo corrisponde ad una scelta razionale che conduce ad una stanza irrazionale e così via sino alla totale perdita della dimensione reale che però non introduce al mondo flottante della cultura zen, ma ad un universo in cui le forme ed i colori sublimano sentimenti e tragitti esistenziali della vita quotidiana. La stessa “natura tecnica” delle opere crea questo paradossale artificium naturæ costituito dall’endiadi di poesia e pittura. Il processo creativo muove infatti dall’espressione lirica che, pur estremamente interessante, non può essere analizzata separatamente dal suo riflesso gemino nella materia cromatica. Le poesie, scritte nella terra di mezzo dove la vita ha condotto Anja, sospesa tra il passato tedesco, il presente italiano ed un futuro (forse) statunitense, sono “petrose”, icastiche, scarnificate fino a raggiungere la struttura ossea dell’espressione lirica che non si interessa più di forma, euritmia e struttura, ma è pura e cruda espressione interiore. Il trapasso nella pittura è in forma di specchio, levigato e lucente, oltre il quale si espande la luce oscura determinata dalle due lune, nere e sovrapposte, di Anja: la poesia (fuori) e la pittura (dentro). Entrare nel mondo pittorico di Anja vuol dire quindi rinunciare all’obiettività ed abbandonarsi al rilascio dei sensi superando strati successivi della nostra sensibilità e della nostra storia, fino a perdere completamente il senso del tempo e il peso della memoria. “(…) Memoria / non è peccato fin che giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione/ che funghisce su sè…” scrive Eugenio Montale nel 1947 in Voce giunta dalle folaghe; così l’arte di Anja sembra correre leggera verso la tragedia finale. Non uso qui il termine “tragedia” per motivi estetici, ma con precisa intenzione. Il senso del dramma e del tragico pervade infatti l’intera opera della Kunze in senso etimologico: “dramma” vuol dire nell’originale greco “azione” e quando si penetra un’opera di Anja ci si muove in un mondo fatto di rocce che si liquefanno in continua mutazione; “tragedia” vuol dire invece “canto dei capri”, con riferimento ai riti satireschi e dionisiaci nei quali gli attori si mascheravano con teste di caproni. Quello che si avverte in Anja è infatti il rito di decomposizione formale del mondo visibile e di distruzione delle apparenze che tengono in piedi la società borghese multimediale globalizzata. Da ciò nasce un codice segnico che, affondando le proprie radici in una archetipica arcaicità atemporale, si proietta verso un futuro favolosamente scintillante in cui non ci sarà più spazio per la forma nota. Mentre viaggiavo nella teoria delle opere di Anja, scorreva nella mia testa la sequenza finale di 2001 Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick in cui colori-forme si susseguono velocemente dissolvendo le barriere spazio-temporali che noi Occidentali ci siamo imposti. Nel contempo sorgeva nel mio profondo la voce di Björk, l’unica capace di evocare la devastante forza tellurica che le opere di Anja fanno esplodere nell’interiorità di chi ha il coraggio di addentrarsi in questa straordinaria “selva oscura”. Come sempre succede, davanti ad onde creative così alte e possenti si cerca rifugio in qualche ambito del noto: nello scintillare dei colori e nell’eleganza suprema degli accostamenti vogliamo ricordare Gustav Klimt, sia per la consistenza materica delle tele così come essa appare ai visitatori del Museo del “Belvedere”, che per l’improvvisa oscurità calata in opere come Vita e Morte (1908-11), in cui il pittore rinuncia alle cromie dorate. Per rimanere in area germanica, la violenza degli accostamenti coloristici sembra addirittura ricordare Franz von Stuck e il suo Inferno (1908), che sembra quasi costituire una fase preliminare alla scelta di Anja. Allo stesso modo, stadio larvale del “Kunze-Universum” possono essere considerate le opere dello svizzero Hans Ruedi Giger, conosciuto ai più per lo “xenomorfo” dell’Alien di Ridley Scott (1979), creatura terribile ed affascinante nella sua letale diversità. La mia formazione di architetto non può che rimandarmi ad Antoni Gaudì, grande anima in cui un eterno braciere ardeva le memorie del passato, o Zaha Hadid, capace di imporre al mondo delle funzioni un universo spaziale svincolato dalla storia e dal ricordo (basti pensare alla stazione dei treni ad alta velocità di Afragola). “L’originalità è nelle origini”, scriveva Gaudì ed in questo senso io credo che, come già accennato, lo “spazio tematico” delle opere di Anja sia quello dei grandi temi, archetipici ed etici, della tragedia greca: il dissidio tra amore fraterno e nomos dello Stato dell’Antigone, il sentimento dell’amore e la volontà di vendetta della Medea. Sono concetti talmente radicali da divenire assolutamente contemporanei, svincolati quindi dalle mode e dalle contingenze storiche e dai riferimenti formali: giganti con i quali i racconti dedicati al dolore, alla dignità, alla guarigione devono cercare il confronto. In conclusione, le opere di Anja Kunze non sono “facili” né classicamente “belle”: ma la vita non è facile e la bellezza vive negli attimi, nel buio di una stanza o nei reconditi recessi – luminosi di luce oscura – della propria coscienza, difficile da cogliere per chi è disattento o superficiale. Questa è la vera bellezza e questa è la vera arte, come quella di Anja Kunze, per chi ha il coraggio e l’umiltà di viverla e amarla.

Raffaele Giannantonio, Professore Associato presso l’università “G.d’Annunzio” di Chieti e Pescara

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